Pepe Mujica è stato, come Papa Francesco, un alieno venuto dal Sud del mondo. L’ex Presidente uruguaiano, scomparso lo scorso 13 maggio a 89 anni, ha denunciato prima di tanti altri le contraddizioni del consumismo sfrenato, professando uno stile di vita modesto. Ex guerrigliero, un filosofo ambientalista, Mujica è rimasto in gran parte inascoltato. Ancora quando l’ambientalismo non era di moda, ha suonato un campanello d’allarme: non sarà forse l’uomo il prossimo a diventare una merce?
Una nuova Minestra degli Esteri è pronta in tavola! Anche questo lunedì, Prismag apre la sua settimana con una retrospettiva sull’attualità internazionale, letta e commentata dai giornali di tutto il mondo. Parliamo della scomparsa di Pepe Mujica, ex Presidente dell’Uruguay, con una vita e delle idee senz’altro diverse dal solito. Facciamo poi tappa in Albania con la vittoria schiacciante di Edi Rama prima di terminare in Senegal.
Pepe, Presidente in Maggiolino
C’è un passaggio sulla sua pagina Wikipedia che colpisce subito: “La sua automobile era un Maggiolino Volkswagen del 1987, che si è sempre rifiutato di cambiare.” È forse questa l’immagine più emblematica di José “Pepe” Mujica, ex Presidente dell’Uruguay, ex guerrigliero, ex tutto, tranne che uomo qualunque.
Durante una visita ufficiale in Germania, Mujica raccontò al New York Times di essersi sentito a disagio, quasi in colpa, mentre veniva scortato in una Mercedes blindata tra due file di motociclette della polizia. “Mi sono vergognato,” disse. Figura chiave dei Tupamaros, un movimento armato che si oppose alle dittature militari uruguaiane con la lotta rivoluzionaria. Come altri leader latinoamericani, veniva dalla trincea, dalla prigione, dalle cicatrici della repressione. Ma a differenza di molti, scelse una via diversa.
Dagli anni '80 in poi, una carriera politica a pieno ritmo, fino all’elezione a Capo dello Stato nel 2005. Niente palazzo presidenziale: “L’idea di fare 300 metri di scale per prendere un tè mi disgustava.” Viveva in una casa con tre stanze, senza nemmeno un telefono cellulare. Coltivava la terra. E, in fondo, coltivava anche se stesso. Sotto la sua guida, l’Uruguay vide crescere il PIL e diminuire le disuguaglianze, come ricorda Carlos Blanco Sommaruga su Diario La República. Legalizzò la cannabis, l’aborto e i matrimoni egualitari.
Tuttavia, non mancarono le criticità. Lo stesso Mujica ammise il fallimento nel migliorare l’istruzione pubblica. E mantenne una posizione controversa sulla Ley de Caducidad, che proteggeva i militari dagli effetti giudiziari dei crimini del passato. Lasciò libertà di coscienza al Parlamento sulla sua abolizione. Le Camere finirono per smantellarla nel 2011.
In politica estera, Mujica mostrava simpatie per figure come Chávez e Lula, ma non risparmiava le critiche a Maduro e Ortega, definiti “dittatori, non certo di sinistra”. Quanto a Fidel Castro, lo rispettava ma con una certa ironia. Forse, tra un sigaro e un Rolex, intuiva che anche i miti possono brillare di vanità.
Nel ricordo di Mercedes San Miguel su Página 12, Mujica appare come un idealista irriducibile. In prigione parlava con le formiche e aveva una rana per amica. A fine 2024, il giornalista del New York Times che lo intervistò rimase colpito dalla sua casa piena di libri e dalla scelta dei fiori: coltivava crisantemi, non per caso.
Edi Rama, un quarto mandato fra controversie e continuità
Edi Rama, attuale Primo Ministro dell’Albania e leader del Partito Socialista, ha incassato il suo quarto mandato consecutivo. Con un consenso elettorale pari al 52%, Rama si conferma alla guida del Paese, rafforzando ulteriormente una macchina politica ormai ben consolidata dal 2013. A fronte di questa vittoria, l’opposizione guidata dall’ultraottantenne Sali Berisha, già Presidente della Repubblica e figura storica del Partito Democratico d’Albania, ha raccolto solo il 34% dei voti.
Al centro della campagna socialista, la promessa di accelerare il processo di adesione dell’Albania all’Unione Europea. Tuttavia, secondo l’analista From Nazhi (BalkansInsight), il risultato elettorale è stato influenzato anche da una strategia collaudata: la leva occupazionale esercitata sui 180.000 dipendenti pubblici, in un Paese che conta meno di 2,5 milioni di abitanti.
Non sono mancate le denunce da parte dell’opposizione, in particolare riguardo al voto postale degli albanesi all’estero, introdotto per la prima volta. Tuttavia, l’OSCE ha definito il processo elettorale “tranquillo e ben organizzato”, pur riconoscendo alcune criticità.
Dall’ingresso in politica di Rama – sindaco di Tirana nei primi anni 2000 – la città ha vissuto una radicale trasformazione. Grandi lavori pubblici, finanziati e realizzati con fondi spesso poco trasparenti, hanno reso il centro urbano un polo turistico elitario. I prezzi degli immobili sono aumentati del 58%, rendendo il mercato inaccessibile alla classe media, come sottolinea Lorin Cadiu, direttore del sito Citizens.al.
Il Senegal procede a tentoni sulla via della trasformazione
Così si intitola il reportage pubblicato sull’edizione di maggio de Le Monde diplomatique, che ci porta nel cuore di Dakar, dove la transizione post-Macky Sall si rivela tutt’altro che lineare.
Dopo quasi dodici anni di potere, l’ex presidente Macky Sall ha lasciato l’incarico rispettando il limite costituzionale dei due mandati. Al suo posto, dal 2 aprile 2024, è salito al potere Bassirou Diomaye Faye, giovane ex funzionario del fisco e leader del partito PASTEF (Patrioti Africani del Senegal per il Lavoro, l’Etica e la Fratellanza).
Faye rappresenta una svolta generazionale e politica: è solo il secondo, dopo Sall, a rompere il bipolarismo della scena senegalese. L’aspettativa era chiara: aprire una nuova era politica, fatta di amnistie e liberazione dei circa 2000 prigionieri politici incarcerati durante l’era Sall. Ma il cambiamento procede a rilento.
PASTEF è un partito ampio e ideologicamente variegato. Unisce anime panafricaniste, progressiste, liberali e persino maoiste. Fra i suoi riferimenti culturali, spiccano figure come Thomas Sankara e Cheikh Anta Diop, simboli di un panafricanismo radicale e anti-occidentale.
Eppure, il nuovo governo ha preso decisioni che hanno spiazzato parte del suo elettorato: 5000 dipendenti pubblici licenziati, considerati “figli del corporativismo” dell’era Sall e una tassa immobiliare di circa 200 euro a casa, che pesa soprattutto sui piccoli proprietari. Scelte che stanno alimentando tensioni interne anche tra i sostenitori di Faye e del suo Primo Ministro, Ousmane Sonko.
Il nuovo esecutivo ha affidato le Finanze a un ex dirigente dell’era Sall e l’Economia a un ex alto funzionario del FMI. Una decisione pragmatica? Forse. Molti militanti accettano un compromesso temporaneo con le istituzioni finanziarie internazionali, ma la vera battaglia resta l’uscita dal franco CFA, la moneta ancora legata alla sfera d’influenza francese. Il governo Faye ha davanti a sé una strada in salita. La promessa di cambiamento è viva, ma il rischio di disillusione è dietro l’angolo.
Cucchiaiata dopo cucchiaiata, siamo arrivati al termine di questa Minestra. Ti ricordo che a questo link puoi abbonarti a Prismag e sostenere questo e altri progetti: non solo riceverai a casa tua la rivista e potrai sfogliarla, anche in digitale, ma contribuirai a sostenere il giornalismo indipendente, giovane e per i giovani.
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