Grossi guai al Post
Il Washington Post, da 50 anni sostenitore di candidati democratici, non si schiera alle Presidenziali 2024. C'entrano gli interessi dell'editore, Jeff Bezos
Di Francesco Stati
Anche le tradizioni più durature prima o poi finiscono. Ne sanno qualcosa i lettori del Washington Post, tra le tre testate più lette al mondo: per la prima volta dal 1976, infatti, lo storico quotidiano del Capitol District non si schiererà alle presidenziali. C’entrano gli interessi dell’editore, il patron di Amazon Jeff Bezos, e un suo avvicinamento al candidato repubblicano Donald Trump su alcuni settori chiave del suo business. La decisione ha provocato un fuggi fuggi di lettori e alcunedimissioni al WaPo, che già da molto tempo è in crisi.
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No, non ti endorso
Il supporto diretto a uno dei due candidati delle elezioni presidenziali statunitensi da parte di un quotidiano è tutt’altro che un’anomalia. Se segui il giornalismo americano, saprai che esiste una netta divisione tra i fatti e le opinioni, nei grandi quotidiani a stelle e strisce (ne ha parlato Fabiana D’Eramo nel nostro numero sull’America, in collaborazione con Jefferson, ma anche di questo diremo più avanti). Se i fatti sono di per sé neutrali, l’editorial board dei giornali statunitensi sovente indica ai propri lettori il candidato che supporta.
Il Washington Post, lo dicevamo, ha espresso un endorsement in ogni elezione presidenziale dal 1976, sostenendo sempre i candidati democratici. Lo ha fatto per Barack Obama, così come con Hillary Clinton e Joe Biden, in ossequio alla linea editoriale progressista del giornale che fu autore dell’inchiesta Watergate con i suoi Bob Woodward e Carl Bernstein.
Addirittura, nel 2017, dopo l’elezione di Donald Trump, il WaPo ha adottato il motto “Democracy Dies in Darkness” sotto la sua testata per enfatizzare i pericoli che percepiva nella sua presidenza.
Secondo la proprietà, la scelta dipenderebbe dal presunto bisogno di recuperare credibilità e neutralità agli occhi di un pubblico diviso e sospettoso verso il giornalismo schierato. L’amministratore delegato William Lewis ha sottolineato l’intento di riportare il giornale alle sue radici storiche, richiamando un editoriale del 1960 in cui il Post riconosceva la saggezza di evitare endorsement ufficiali. Sebbene la pratica dell’endorsement sia una tradizione consolidata per il giornalismo statunitense, negli ultimi decenni i giornali hanno visto crescere la sfiducia dei lettori sulla capacità di mantenere un equilibrio tra informazione e opinione.
Dietro, però, c’è dell’altro. Secondo fonti interne al giornale, la decisione di fermare l’endorsement è arrivata direttamente da Jeff Bezos, editore del quotidiano. Oltre a questo, Bezos è fondatore di Amazon e, soprattutto, capo della società spaziale Blue Origin. Le industrie del settore prosperano soprattutto grazie alle commesse pubbliche: un’ostilità a Trump, se questi vincesse le elezioni, sarebbe un grave danno per gli affari (anche perché il grande rivale, Elon Musk, si è legato a doppio filo con il candidato repubblicano). Non è un caso che, come rivelato dall’agenzia Associated Press, i dirigenti di Blue Origin abbiano incontrato Trump dopo il suo discorso a Austin, in Texas, il 25 ottobre, lo stesso giorno dello stop all’endorsement verso Harris.
Per questo motivo, molti hanno interpretato la sua ignavia come un tentativo di mantenere buoni i rapporti con il governo, nel caso di una vittoria di Trump. Un po’ come fatto da Patrick Soon-Shiong, editore del Los Angeles Times, che ha a sua volta bloccato l’endorsement del suo giornale a Kamala Harris: come imprenditore nell'industria farmaceutica, teme ostacoli dalla FDA (Food and Drug Administration) per l’approvazione dei suoi prodotti in caso di successo dei Repubblicani.
E la redazione si inc*zza
Il sostegno a Harris è ampio nella redazione del Washington Post. Non solo: l’editoriale di endorsement alla candidata democratica era già stato scritto ed era in procinto di essere pubblicato. Così, dopo un comunicato di protesta del Comitato di redazione, sedici membri dell’editorial board hanno pubblicato un editoriale. «È un terribile errore», si legge. «Rappresenta un abbandono delle convinzioni editoriali fondamentali del giornale che amiamo. Questo è il momento in cui l’istituzione deve rendere chiaro il suo impegno nei confronti dei valori democratici, dello stato di diritto e delle alleanze internazionali, della minaccia che Donald Trump rappresenta per loro. Non c'è contraddizione tra l'importante ruolo del Post come giornale indipendente e la sua pratica di fornire endorsement politici, sia per orientare i lettori che per dichiarare i principi in cui crede. Un candidato [Trump, ndr] sostiene posizioni che minacciano direttamente la libertà di stampa e i valori della Costituzione».
Robert Kagan, editorialista di punta del Washinton Post, conservatore, si è dimesso definendo la decisione «un inchino preventivo davanti a chi pensano sia il probabile vincitore delle elezioni. Chiunque faccia parte dell’economia americana quanto Bezos ovviamente vuole avere un buon rapporto con chiunque sia al potere: tutta l’America delle multinazionali si sta inginocchiando davanti a Trump, che in questo modo controllerà i media in mano alle grandi aziende». Alle sue parole si sono accodati anche Woodward e Bernstein, che hanno definito la scelta del loro ex giornale «sorprendente e deludente», anche alla luce dei passati sforzi di Bezos per documentare le «schiaccianti prove giornalistiche del Washington Post sulla minaccia che una seconda presidenza Trump rappresenta per la democrazia».
Se la redazione non l’ha presa bene, questa la risposta dei lettori: secondo Semafor, in duemila hanno disdetto il loro abbonamento.
A proposito di fatti e opinioni, in Italia e Usa
Di giornalismo americano e delle grandi, grandissime differenze con quello italiano abbiamo parlato anche noi, nel numero 10 | Sull’America. La nostra Fabiana D’Eramo ha intervistato Davide Mamone, italiano, reporter per FundFire (una testata del Financial Times), che ha lavorato per molti anni per le testate nostrane.
La principale differenza, lo dicevamo, si trova nel modo di trattare notizie e opinioni. Negli Stati Uniti, i ruoli sono chiari: o scrivi una notizia o esprimi un’opinione. In Italia, invece, il confine è meno netto e questo influenza profondamente l’approccio editoriale. Oltreoceano la separazione tra questi due ambiti, ci spiega Mamone, non è solo professionale, ma anche fisica: l’ala opinion e quella news sono in zone diverse delle redazioni. Chi scrive notizie non inserisce valutazioni personali e, in caso contrario, gli editor intervengono.
Puoi approfondire la storia a questo link.
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